Per individuare le cause della devianza e le terapie necessarie si ha bisogno di approfondire quali nella storia sono state le teorie pedagogiche, psicologiche e sociologiche che hanno tentato un approfondimento, e cosa oggi ci accompagna nella risposta ai minori.

Fin dai tempi di Lombroso nel Novecento ricompaiono ogni tanto le teorie eziologiche e biologiche, che cercano di individuare una particolare configurazione cromosomica, o fisica, per il soggetto violento. I fattori biologici, pur dimostrandosi a volte rilevanti, sono parte di una teoria estremamente debole, poiché impossibile da generalizzare. Ricordiamo Merton e Cohen che si basano sugli studi condotti a Chicago e fanno parte delle teorie anomiche, le quali vedono la disorganizzazione individuale e il comportamento antisociale come conseguenza alla disorganizzazione sociale, in quei borghi dove a tantissima gente non corrisponde una rete adeguata di servizi, piuttosto che di controllo sociale.

Le cause del comportamento deviante vengono cercate anche dalla ricerca psicologica, però attraverso lo studio dei comportamenti, della personalità o del carattere, con test di personalità che cercano di associare la condotta deviante all'immaturità, alla bassa strutturazione dell'io, all'anaffettività, alla punitività. Ricordiamo il rapporto tra frustrazione e aggressività (Dollard, Miller), complesso di inferiorità (Adler), strutturazione rigida del super io (Klein), eccesso di senso di colpa (Freud), o incapacità ad avvertirlo (Winnicott).
Inoltre possiamo vedere come teorie siano più legate a ricercare le cause della devianza attraverso legami con il contesto familiare, ad esempio Bowlby, le cure materne, nel 1967 e Andry, il recupero della figura paterna, 1966, oppure con il contesto sociale con le teorie di Merton (1968) secondo cui le città industrializzate non consentirebbero un uguale accesso ai mezzi approvati per conseguire degli obiettivi e l'unico mezzo sarebbe la devianza.

Tutte queste teorie però non sono generalizzabili e dimenticano l'importanza del fattore contesto o della soggettività individuale. Possiamo fare riferimento allo schema intitolato "fattori di predizione della violenza giovanile", dove Lipsey e Derzon ci riferiscono che i fattori di rischio sono suddivisi in 5 categorie: individuali, familiari, scolastici, correlati al gruppo dei pari, legati all'ambiente economico sociale.
Tutto ciò non vuol dire che si possa giungere a conclusioni, bisogna vedere se in un determinato caso esista la compresenza di elementi protettivi, che prevengono la possibile condotta violenta.

Mi piacerebbe approfondire il pensiero di grandi personalità del passato che hanno posto le basi per ragionare in termini di sviluppo e aggressività, quindi di tendenza antisociale.

Melanie Klein attirò l'attenzione di molti studiosi ed in modo particolare di Winnicott, di cui divenne allievo e grande stimatore, nel 1935 definendo uno stadio importante nello sviluppo affettivo dove è presente l'aggressività associata alle frustrazioni che inevitabilmente disturbano le soddisfazioni istintuali e si sviluppa il conflitto a due: madre e infante. Questo stadio deriva dalle idee distruttive che accompagnano l'impulso d'amore che il bambino prova verso la madre. Questo impulso ha un fine aggressivo di cui il bimbo stesso si preoccupa. Se la madre si comporta in modo altamente responsivo è in grado di concedere al bambino molto tempo per fargli accettare il fatto che l'oggetto dell'atto crudele è egli stessa. La iniziale negligenza ed indifferenza del bambino si trasforma a questo punto in preoccupazione e senso di colpa. Inoltre ha studiato il reciproco rapporto sentito dal bambino come benevolo e malevolo in termini di forze o di oggetti del Sé.

Winnicott nel 1963 rielaborò il concetto che è presente in ogni individuo in grado di sviluppare un sentimento di preoccupazione e di responsabilità personale per la distruttività che è insita nella sua natura. Egli fa notare come sia influente in questi termini l'ambiente umano nell'alimentare questa tendenza. È proprio in questa fase che secondo l'autore il bambino che prova deprivazione o perdita può avere conseguenze ed inibire o perdere le origini del processo di socializzazione. La mancanza del senso di colpa viene collegata a questo punto con la tendenza antisociale. È in rapporto al fenomeno della perdita e della riconquista del senso morale che si può sviluppare delinquenza e recidività.
Nel 1956 Winnicott individua le origini e le due principali tendenze del comportamento antisociale: rubare e mentire, crimini violenti. I primi si sviluppano quando vi è un tentativo inconscio di giustificare il senso di colpa, gli atti in principio non soddisfano la richiesta inconscia ma se ripetuti possono raggiungere lo scopo. I secondi, quelli più gravi, si verificano quando vi è un'assenza del senso di colpa.

La tendenza antisociale è anche profondamente collegata alla deprivazione del bambino, come ci riferisce Bowlby, situazione in cui mancano parti essenziali della vita familiare. Elementi importanti per un bambino deprivato e con tendenza antisociale, a parere di Winnicott, sono l'ambiente e chi si prende cura di esso, e la speranza, che sarebbe una manifestazione del comportamento antisociale ("la delinquenza indica la sopravvivenza di qualche speranza").
La tendenza antisociale si manifesta in due aspetti: il furto e la distruttività, questi sono entrambi dichiarazione della ricerca di un apporto ambientale che è stato perduto.
Il comportamento antisociale è visto da Winnicott come una sfida che deve essere affrontata con fermezza nella società dalle persone mature a cui spetta il compito di contenere il disagio. Egli crede che la cura migliore sia il tempo.

Teoria dell'attaccamento di Bowlby
Secondo la teoria dell'attaccamento di Bowlby una persona in situazione di affaticamento, solitudine o paura ricerca la vicinanza di un'altra persona, ben identificata, che reputa in grado di fornirgli conforto, questo è evidente in particolar modo nella fase della prima infanzia.
Per Bowlby il bambino ha quattro pattern con cui comportarsi se il genitore si allontana e/o viene a mancare, rilevate anche da osservazioni durante strange situation: evitante (mostra indifferenza); sicuro (protesta e si calma solo quando torna il genitore; resistente (protesta e non si calma neanche al ricongiungimento con il genitore); disorganizzato (vanno incontro ma con la testa rivolta verso altro). Dipende dal pattern di attaccamento come il bambino si rapporterà al mondo esterno. Ad esempio se le figure di attaccamento sono emozionalmente fredde e distanti non vi è aspettativa di conforto e/o aiuto e in questo caso il bambino nell'affrontare le successive competizioni mostrerà eccessiva timidezza o comportamenti di esitamento.
Il comportamento violento sarebbe quindi non un istinto biologico innato, ma la manifestazione della distruzione dei legami di attaccamento e di un Sé frammentato.

Il comportamentismo nasce con Watson nel 1913 ed abbandona l'idea di studiare la mente per concentrarsi sul comportamento, in particolar modo sulle associazioni di stimolo risposta che l'individuo attua e a cui è sottoposto.

Per la teoria dell'apprendimento sociale ricordiamo Bandura, che per quanto riguarda il comportamento aggressivo , riferisce che dagli studi fatti i bambini che hanno avuto modelli premiati per essere stati aggressivi tendono a sviluppare tale comportamento in maniera maggiore rispetto ad altri che magari ricevevano una punizione.

Berkowitz riferisce che esistono stimoli per avere un comportamento aggressivo nelle esperienze negative e nei ricordi ed emozioni ad esse associate. Inoltre per l'autore la visone di un'arma nella propria casa può aumentare la possibilità di assumere certi comportamenti. Come si può evincere dallo schema del modello esplicativo dell'aggressività neoassociazionista-cognitivo, le provocazioni e le frustrazioni ambientali portano esperienze negative che si manifestano nel comportamento (aggressione o fuga), nelle emozioni (rabbia o paura) e nelle cognizioni ( pensieri di ostilità o di aggressione).

Barbara D'Ippolito
Articolo tratto dalla tesi Lavorare con i minori: un percorso educativo pedagogico