“Migliorare il destino”: questa era la parola-chiave del dopoguerra e ciò significava sviluppo economico. Tuttavia, non c’era chiarezza semantica: per alcuni come Myrdal era il “miglioramento di tutte le condizioni indesiderabili che caratterizzano quel sistema sociale che ha perpetuato lo sviluppo”; per altri lo scopo primario era “assicurare un livello di vita adeguato al popolo e venire a capo della spaventosa povertà e dell’analfabetismo delle masse”; per altri ancora, soprattutto in America Latina, lo sviluppo economico era identificato con l’industrializzazione.

Nell’affinare la propria interpretazione, gli economisti finirono per restringerla: essendo lo scopo ultimo l’elevazione del benessere della popolazione, ed essendo il “problema essenziale dello sviluppo economico quello di far crescere il livello del reddito nazionale attraverso una incremento della produzione pro capite, così che ogni individuo potrà essere messo in condizione di consumare di più”1, la similitudine sviluppo e crescita economica era stato creato. Eugene Staley riassume efficacemente questo utilizzo affermando che:

c’è essenzialmente un solo modo in cui tutti gli uomini di tutta la terra possono giungere alla liberazione dalle necessità e, più precisamente, tale modo è un consistente incremento nella produzione. Non si ripeterà mai abbastanza che il miglioramento dei livelli di vita dipende in misura fondamentale dal miglioramento delle capacità di produrre del popolo [...] [e non da] un utilizzo più intenso della capacità produttiva già esistente ed una distribuzione più equa dei suoi frutti2.

Curiosamente, però, ad indicare lo stesso fenomeno si usava «sviluppo economico» per i Paesi poveri, «crescita economica» per quelli ricchi.

Lo sviluppo economico fu definito come un processo trasformativo dell’economica di una società che giunge ad avere un aumento del reddito pro capite nel lungo periodo. Anche se fin da subito veniva dato il peso dovuto all’inadeguatezza del reddito pro capite quale misura degli standard di vita, al massimo gli economisti proponevano un’analisi sugli aggiustamenti strutturali (economici e sociali) che dovevano accompagnare la crescita economica, quali la distribuzione del reddito o il restringimento del settore agricolo.

Il PIL era dunque l’indicatore dello sviluppo, anche se ovunque veniva espressa la sua inadeguatezza come indice degli standard di vita.

Questa visione dell’aumento di produzione come essenza dello sviluppo continuò fino alla fine degli anni Sessanta. Essa può sembrare artificiosa e ingenua, ma dobbiamo pensare che da almeno due decenni gli economisti avevano imparato a misurare statisticamente i livelli di vita materiale.
Inoltre, il pensare allo sviluppo come fatto meramente economico si deve, in Occidente, al fatto che la crescita divenne un obiettivo primario della ricostruzione nei decenni postbellici, e questo aveva formato una serie di teorie, analisi e strumenti che dava agli economisti un vantaggio rispetto agli altri studiosi di scienze sociali.

Gli economisti in questo periodo si concentrarono, proponendo diverse teorie, sugli strumenti atti al conseguimento dello scopo dell’aumento di produzione. In queste analisi, si misero in evidenza alcuni filoni di pensiero diversi fra loro per l’oggetto della trattazione e dall’opinione dominante per gli esiti dei loro lavori. Alcuni si focalizzarono, come Harrod e Domar, sul fabbisogno di capitale tipico delle aree sottosviluppate e la crescita bilanciata, in cui lo sviluppo economico non poteva essere lasciato in balia delle forze del mercato.

Nei primi anni Sessanta, l’interesse si spostò dalla creazione di ricchezza alla capacità di creazione di ricchezza. In quest’ottica, economisti tra cui Solow e gli esponenti della Scuola di Chicago, focalizzarono la loro attenzione sul capitale umano, cioè su elementi quali il fattore residuale, l’assistenza tecnica, e la pianificazione delle risorse umane (per la quale il drenaggio di cervelli rappresentava un ostacolo enorme), ma sempre considerati come elementi necessari ad una crescita economica a lungo termine, diversa da quella breve termine che poteva essere raggiunta da un investimento di capitali.

Contemporaneamente, un ultimo filone, considerava il commercio internazionale come il miglior carburante alla crescita economica. Il dibattito fra promotori e critici del libero scambio era vivo fin dal diciannovesimo secolo, ma per quanto concerne la letteratura economica sui Paesi meno industrializzati era prevalsa la critica (gli esponenti di spicco furono e restano Prebisch e Myrdal con le loro teorie sulla scarsa elasticità della domanda per i prodotti di base il primo, e gli effetti negativi della concorrenza mondiale sulle economie più deboli il secondo). Gli scarsi risultati ottenuti dalle politiche protezionistiche di sostituzione delle importazioni in America Latina, assieme alla preoccupazione per il “gap valutario” dei Paesi in via di sviluppo e ai tentativi di neutralizzazione del GATT da parte di Unione Sovietica e Paesi del Terzo Mondo, fece emergere però una rivalutazione del commercio internazionale. Già nel 1961 l’Assemblea delle Nazioni Unite approvò una risoluzione titolata Il commercio internazionale come strumento primario per lo sviluppo economico e molti Paesi emergenti (soprattutto nel Sud Est Asiatico) sembravano comprovare questa tesi.

Durante gli anni Settanta il lavoro di Arthur Lewis fece luce sulla correlazione (da lui definita quasi una dipendenza) fra il tasso di crescita dei Paesi avanzati e quella dei Paesi in via di sviluppo: i secondi, principalmente impegnati nella produzione di materie prime, crescevano solo in rapporto alla domanda dei primi. In realtà, non tutti i Paesi meno sviluppati producevano prodotti base, e s’affacciava al mercato internazionale una varietà incredibile di produzioni primarie e manifatturiere nei Paesi del Terzo Mondo.

Era naturalmente possibile sostenere che per la maggioranza dei paesi in via di sviluppo, e specialmente per quelli africani, le conclusioni di Lewis trovavano riscontro nei fatti reali, e che il successo di strategie di sviluppo industriale orientate alle esportazioni sarebbe diventato sempre più difficile con l’aumento del numero di paesi decisi a praticarle.[...] essa rimase [tuttavia] una visione di minoranza nell’ambito del Terzo Mondo, oscurata politicamente dall’ideologia UNCTD – caratterizzata dalla richiesta di un nuovo ordine economico internazionale3

Lo stesso valeva per la letteratura sui problemi dello sviluppo, che oramai orientava come sociale l’obbiettivo dello sviluppo.

Note:
1 Ellsworth, P. T., The International Economy (New York: Macmillan, 1950). Citato in Arndt, H.W., Op. cit., pag. 73
2 Staley, E., World Economic Development: Effects on Advanced Industrial Countries (Montreal: International Labour Office, 1944). Citato in Arndt, H.W., Lo sviluppo economico: Storia di un’idea (Bologna: Il Mulino,1990), pag. 74
3 Arndt H.W., Lo sviluppo economico: Storia di un’idea (Bologna: Il Mulino,1990), pagg. 115-116.


L'articolo è tratto dalla tesi di Martina Bertazzon. Il concetto di sviluppo. Una forma di colonizzazione?

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