I recenti sviluppi della sociologia della conoscenza e della sociologia della cultura, con i contributi dell’etnometodologia, del costruzionismo etc., ci hanno mostrato come l’attribuzione di senso alla realtà, le interpretazioni del mondo e le costruzioni delle identità, passano attraverso le pratiche discorsive e non di ogni giorno. Anche l’immagine dell’immigrato, dello straniero avviene lungo il flusso ordinario di discorsi e gesti che una collettività mette in piedi. La negazione dell’Altro che spesso sottende tale costruzione è dunque esito di continue pratiche quotidiane e il potere ad esso connesso si ritrova in ogni luogo, in ogni spazio (dal supermarket alla televisione), senza essere vincolato in maniera monopolistica ad un centro gerarchico.
In questa analisi condotta a partire dagli scritti raccolti nel libro “Imbarazzismi” da Kossi Komla Ebri, l’Altro, che viene definito attraverso le pratiche con cui il Noi si relaziona ad esso, è l’immigrato africano che vive in mezzo al noi e che, nonostante si adegui alle “ricette” della nuova comunità, viene comunque riconosciuto come diverso. Si è detto all’inizio che la condizione di straniero nasce da un incontro con un Noi:

Quando portammo per la prima volta i nostri figli in Africa a conoscere i nonni paterni, venivano rincorsi e additati dagli altri bambini festosamente con le grida: “Yovo (bianchi)! Yovo! Yovo!” I miei pazientarono per i primi giorni ma, siccome la scena si ripeteva di continuo, dovetti spiegare il significato del termine. Giunti a casa, esasperata, mia figlia mi chiese: “Papà, perché in Italia mi chiamano negra e qui in Togo mi dicono Yovo?” (Kossi Komla-Ebri, 2004)

Essere straniero, infatti, non è definito da una sua caratteristica intrinseca, da una sua diversità oggettiva, come ci narra M. Twain in “Wilson lo Svitato”.

Sotto tutti i punti di vista Roxy era bianca come chiunque altro, ma quella sedicesima parte negra predominava sulle altre quindici, e faceva di lei una negra. Era una schiava e come tale merce da vendere. Suo figlio per trentun parti bianco e anche lui schiavo e, per un capriccio della legge e delle usanze, un negro. Aveva occhi azzurri e riccioli biondi, come il suo compagno bianco; perfino il padre del bimbo bianco riusciva a distinguerli – per quel tanto che se ne occupava – unicamente dai vestiti. Perché il bambino bianco portava una vestina di leggerissima mussola, tutta crespe e gale e una collanina di coralli, mentre l’altro aveva indosso una semplice camicia di lino grezzo, e niente monili. (M. Twain, 1987)

Linguaggio, leggi (istituzioni), usanze, vestiti e monili ecco le modalità attraverso le quali l’altro viene definito e il confine tra Noi e Loro tracciato. Per quanti sforzi quest’ultimo compirà per cercare di essere parte del noi, rimarrà sempre estraneo.
Ma come viene trattata questa sua costante ambivalenza? Come è costruito il ragazzo o la ragazza senegalese o ivoriana o congolese che si trova a vivere in mezzo alla nostra società, ma non è parte della nostra società? Quale differenza e confine viene fissato? Con quali implicazioni?
La comunità, nel tentativo di definire se stessa e il mondo che la circonda, definisce l’estraneo come opposto, come negazione della parte che parla e rappresenta. Il Noi è la norma e l’Altro è tutto ciò che è posto al di fuori:

Disse la bambina parlando del suo fratellino appena adottato: “Non mi piace andare in giro con lui, perché lui è anormale”. “Come anormale?” “Sì! Tutti lo guardano perché ha gli occhi così (gesto per indicare gli occhi a mandorla) e la pelle scura, invece non mi guardano perché io sono normale!” (Kossi Komla-Ebri, 2004)

L’altro diviene oggetto di categorizzazioni, di un processo di oggettivizzazione ossia è percepito come qualcosa di generale e non nella sua individualità: ogni immigrato diviene esempio tipico di una categoria più ampia. Lo straniero è colto in termini di generalità e non per le sue caratteristiche personali:

Cissé non tornava in Senegal da due anni per poter accumulare così due mesi di ferie da passare in terra natale. [...] Al check-in, la signorina raffreddò il suo entusiasmo informandolo che le sue valigie pesavano 40 chili e che aveva diritto solo a 20. La sua gioia si tramutò dapprima in angoscia per sprofondare poi nella più nera disperazione. Non poteva certo tornare a casa senza regali. Sarebbe stato la più cocente delle umiliazioni, perché i regali erano il segno tangibile della sua riuscita in Europa e si era privato di tante cose per quello. Per sua fortuna una giovane coppia di neo-sposi in viaggio di nozze per Dakar, avendo pochi bagagli, si offrì di condividere i suoi chili eccedenti. Il suo sollievo fu mitigato dal commento della signorina alla coppia: “Così li abituate male, perché questi qua non viaggiano...traslocano”. (Kossi Komla-Ebri, 2002)

“Questi qua” è il segno linguistico più ricorrente in questo processo di oggettivizzazione, dove le differenze individuali, che ogni estraneo porta con sé, finiscono per essere tutte sfumate e cancellate in un’unica categoria.

La signora maestra perorava con gli occhi fuori dalla montatura: “Vede, in classe abbiamo un ragazzino di colore e vorremmo approfittare della sua presenza per fare dell’intercultura ma...niente da fare. L’altro ieri gli ho chiesto di dirci una parola in africano e lui, silenzio totale”. Concluse sagacemente: “Secondo me si vergogna delle sue origini!” Può anche darsi, ma cara maestra mia, mi dica lei una parola in “europeo”! (ib. 2004)

Nei due episodi appena citati emerge un’altra considerazione interessante: uno degli approcci con cui il Noi si relaziona all’Altro è il paternalismo. La comunità si deve prendere cura dell’estraneo in quanto inferiore, inadatto a sapersi gestire, non ancora civilizzato come il centro del discorso. La frase “così li abituate male” da una parte mostra l’atteggiamento tipico dell’educatore che si deve far carico dell’apprendimento altrui, al contempo il “plurale” con cui è costruito il modo di dire, pur rivolgendosi al solo Cissé, ci illumina su quei processi di oggettivizzazione quotidiani attraverso cui guardiamo l’Altro.
L’estraneo in questo modo viene costruito attraverso le pratiche e il linguaggio come un bambino. Va da sé poi che l’altro vive in mezzo a noi, definito come un incapace che ha bisogno di essere aiutato, non diventerà mai come noi a differenza del bambino educato: “per quanto possa lavare le sue mani sporche, esse non saranno mai bianche”.

L’Altro è costruito come mancanza non solo nel senso di incapacità di sapersi gestire, di essere responsabile, ma anche nel più sottile significato di presenza irrilevante.

Ribka era sola in ufficio. Le sue due colleghe italiane erano in pausa caffè. La signora entrò senza bussare. Rbka sentì il suo sguardo laser trapassarla per vagare contrariato sulle sedie vuote. “Dica signora!” “Non c’è nessuno (il corsivo è mio)?” “Come?” “Non c’è nessuno?” Ribka pensò tra sé: “E io chi sono? Una sedia, un tavolo?” Poi si informò: “Mi dica signora, come la vuole? Bionda? Rossa? Bruna?” (ib. 2004)

L’Altro così è “nessuno”. Come sostiene Bauman, l’Altro diviene “un essere-non-riconosciuto, un’esistenza non-ammessa: un essere-che-non-è, un’incongruenza”. Una possibile strategia per accettare la presenza dell’Altro in società può essere quindi il non-incontro, il non-riconoscimento.
Un’implicazione di una tale costruzione dell’altro è disattenzione nei suoi confronti, indifferenza verso di lui. L’Altro è ombra e come tale scompare al nostro passaggio.
Un’ulteriore conseguenza di questa modalità di relazionarsi con l’immigrato è considerare il ragazzo o la ragazza immigrata inadeguata a svolgere determinati ruoli

Un giorno, mentre si trovava nel corridoio della corsia dove lavorava come infermiera, Akolè vide arrivare un signore elegante e distinto. Con premurosa gentilezza, gli andò incontro e gli chiese: “Mi scusi, posso esserle utile?” Lui rispose con un secco “no” oltrepassandola per recarsi diritto verso la dispensa dove le ausiliarie stavano approntando i pasti per i degenti. Arrivato lì disse: “Sono il figlio della signora Galimberti del letto 130 che è stata operata stamani e vorrei avere notizie dalla caposala sulle sue condizioni”. Gli fu indicata la caposala, che era l’infermiera “di colore” che aveva appena sorpassato nel corridoio. (ib. 2002)

Non solo l’Altro non sa gestirsi e non sa svolgere le mansioni più rilevanti, ma non è nemmeno preparato a rispettare le norme semplici e comuni del vivere in società.

Mi raccontò Matteo, un giovane di origine togolese: “Tornavamo dalla Francia col TGV io e Franco, un mio amico italiano. La nostra carrozza era piena di gruppi di giovani un po’ chiassosi e in vena di scherzi. A un certo momento, iniziarono a produrre il rumore dello “scoreggio” con un sacchetto giocattolo. [...] Passò nel corridoio una signora e allo stesso momento risuonarono il malefico rumore. La donna si girò di scatto verso di me e con tono di voce cattiva mi aggredì: “Non siamo mica in una stalla!”. (ib. 2004)

Anche le etichette linguistiche stesse con cui abitualmente, quotidianamente definiamo l’Altro concorrono a una sua definizione come mancante, come incapace o come irrimediabilmente destinato ad accontentarsi del poco che la comunità gli concede. Egli non può aspirare a diventare come noi.

Il sindaco di una grande città del nord Italia in un discorso ufficiale definì con il termine “vu cumprà” i venditori ambulanti senegalesi. Qualcuno obbiettò che la parola era offensiva e carica di significato dispregiativo. Il primo cittadino ribatté che si trattava di una polemica pretestuosa in quanto ormai “vu cumprà” era una parola d’uso comune. Quando chiesero ad un mio amico giornalista senegalese cosa ne pensava, egli rispose: “Dite a quel sindaco che è un cretino! Tanto, “cretino” è ormai una parola d’uso comune” (ib. 2002)

Ciò che quel sindaco non capiva (o faceva finta di non capire) era la connotazione negativa ancorata a un termine come “vu cumprà” – oltre al fatto di catalogare tutti gli immigrati entro una categoria generale che non da peso alle differenze interne dell’Altro. Le etichette inoltre, come ci ricorda M. Twain, sono difficili da “staccare” una volta incollatesi al soggetto sociale che va a definire.

Di lì a una settimana aveva perso il nome di battesimo, sostituito con quello di Svitato. Col tempo riuscì a farsi benvolere, e anche molto; ma ormai il soprannome gli si era incollato addosso e lì stava. Il verdetto di quel primo giorno aveva stabilito che era uno sciocco, ed egli non riuscì a farlo dimenticare e neppure modificare. Ben presto il soprannome cessò di essere l’espressione di sentimenti offensivi e ostili, ma gli rimase e continuò a rimanergli per venti lunghi anni. (M. Twain, 1987)

I pregiudizi, pur avendo forma discorsiva, non per questo sono meno carichi di implicazioni sulla realtà. Etichettare in questa maniera i ragazzi e le ragazze senegalesi ha delle implicazioni notevoli sul nostro modo di relazionarci con loro: crea, infatti, delle aspettative sui ruoli che essi possono assumere nella nostra società. L’immigrato nel nostro immaginario è destinato a rivestire ruoli subordinati, a occupare quegli spazi sociali lasciati liberi dal noi, perché umilianti o poco gratificanti.

Tornando da scuola, Gratus passò per il centro perché doveva comprare dei quaderni in una cartoleria. Appena lui con il suo borsone entrò nel negozio, il commerciante gli venne incontro con mani e palme aperte dicendo: “No, grazie, non compriamo niente!” “Ok!” disse Gratus “ma io posso comprare dei quaderni?” (ib. 2002)

Quando Kuma si recò con la sua adorata Serena in Sardegna per conoscere i futuri suoceri, lei portò ad assaporare la tiepida brezza salmastra della sera in spiaggia. Mentre Kuma apriva il borsone per estrarne la salvietta per sdraiarsi, gli si avvicinarono due amabili signore che con sollecitudine chiesero: “Non hai qualche braccialetto o collanina da vendere?” (ib. 2002)

Il confine tracciato attraverso una tale costruzione dell’Altro è quello della subordinazione sia fisica che sociale. L’immigrato non è come noi, è inferiore socialmente in quanto è dipendente da un padrone bianco o da una padrona bianca: non è autonomo perché incapace di agire responsabilmente, di sapersi gestire, di rispettare le norme quotidiane e di assumere posizioni sociali superiori a quelle del noi bianco. Lo spazio a lui riservato è quello infimo della gerarchia sociale – badante, vu cumprà, lavavetri etc. – e finche è confinato in esso non è pericoloso, non minaccia l’ordine e le classificazioni, che lo collocano nell’ambito della società solo come residuo dipendente dal noi. L’Altro diviene oggetto di cui il Noi può disporre per le proprie comodità, per il proprio svago e consumo – anche se, beninteso, non è affatto necessario (Lars Von Trier ha fornito una brillante rappresentazione scenica di questa collocazione sociale nel suo film “Dogville”). Inferiorità che non deve alimentare risentimento perché, come detto, in fondo la comunità “civilizzata” del Noi si prende cura di lui, si fa carico della sua inferiorità. L’immigrato è talmente inserito in questa costruzione della differenza, basata su subordinazione-dipendenza e fissata dal centro del discorso, che diviene inconcepibile solo immaginare che esso possa nutrire dei risentimenti contro il noi.

Un giorno, in classe, durante un incontro sull’interculturalità, chiesi ai ragazzi di darmi una definizione del termine “razzismo”. Subito, il più sveglio esclamò: “Il razzista è il bianco che non ama il nero!” “Bene!” dissi “E il nero che non ama il bianco?” Mi guardarono tutti stupiti ed increduli con l’espressione tipo: “Come può un nero permettersi di non amare un bianco?”. (ib. 2002)

La differenza tra Noi e Loro basata sulla condizione di inferiorità di questi ultimi, sulla mancanza di tutto ciò che i primi possono essere, si può spingere fino alla caratterizzazione fisica.

La pazienza di Driscoll era esaurita. Era piuttosto umano verso gli schiavi e altri animali... (M. Twain, 1987)

L’Altro alla fine perde la sua caratteristica di essere umano, è declassato dall’umanità per sistemarsi a cavallo tra essere uomo, essere animale e oggetto del noi. In questo caso si giunge a quella figura che Bauman chiama “straniero assoluto”.
Come detto all’inizio lo straniero interno sfugge alla classificazione: non è mai né amico né nemico, è amico e in pari tempo nemico di cui non ci si può fidare. E’ inserito nella comunità, ma non fa parte del noi. L’immigrato è socialmente distante, ma fisicamente vicino: vive negli interstizi, nelle pieghe del tessuto sociale del noi. Questa sua ambivalenza si è visto come viene presa a ideale della sua stessa condizione: l’Altro viene rappresentato come confuso moralmente, irrispettoso delle regole, etc. (si veda sopra.)
Tuttavia, secondo Bauman, un altro dei possibili modi per controllare l’ambivalenza dello straniero consiste nel ricercare “tra gli stranieri di cui non ci si può liberare, una categoria di stranieri “assoluti” di cui si presume di poter fare a meno”. Allo straniero assoluto gli viene negata qualsiasi possibilità di somiglianza con il Noi. La comunità non produce più una narrazione in cui l’Altro è inferiore e da educarsi, ma comunque essere umano, bensì diventa minaccia. Alterità e identità del Noi si legano insieme al fine di produrre una narrazione capace di ordinare e dare sicurezza, individuando la fonte della minaccia. La comunità si definisce e rinforza la solidarietà dei suoi membri attraverso l’immigrato che minaccia l’ordine della “casa sicura”. La costruzione del sé fissa “inizialmente il mondo a un’identità che si definisce minacciata. Questa minaccia è definita come proveniente dall’esterno dell’identità – dalla sua periferia” (Huysmans). Ossia dall’Altro.

Alessandro e la giovane moglie nigeriana andarono in posta per riscuotere un vaglia. Alex entrò da solo e, giunto al banco per scrivere, posò il suo cellulare a portata di mano. Non vedendolo tornare, la moglie varcò a sua volta l’ingresso, si portò vicino al marito e allungò le mani verso il telefonino. Subito l’impiegato si portò avanti per sussurrare ad Alex: “Stia attenta a quella ladra di una negra, le sta fregando il cellulare” (Kossi Komla-Ebri. 2004)

Come ironicamente fa osservare Michael Moore, nel suo film “Bowling for Columbine”, ogni sospetto di omicidio è un “soggetto afro-americano”, le api che probabilmente invaderanno la costa sud-occidentale degli Stati Uniti sono le “api africanizzate” e così via, creando nella collettività un’immagine dell’afro-americano caratterizzata da fobia e discriminazione. Quanto maggiore è la minaccia che l’altro può portare, tanto più viene escluso e il Noi si rinserra in un sentimento caldo di solidarietà e appartenenza.
Nell’opacità del flusso quotidiano in cui sono inserite queste costruzioni, non ci si rende conto che l’Altro come minaccia o come inferiore e incapace sono esito dell’azione umana, della narrazione del Noi, delle sue forme discorsive (“vu cumprà” etc.) e delle sue pratiche attraverso cui si dà significato all’Altro per definire se stesso.


di Manuel Antonini